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A Step Back



Beethoven si accorse della propria malattia all'apice della sua carriera.

Attraversò un periodo di colluttazione con sé stesso, fino a rinchiudersi nella propria prigione personale - oltre muri che nessuno avrebbe potuto infangare con lo sguardo.
A niente valsero le cure, e nel 1820 divenne completamente sordo.
Mio padre mi diceva che preferì costruirsi una reputazione da misantropo -piuttosto che ammettere di aver conosciuto una fine: è per questo che non smise di comporre.

Note che non avrebbe mai sentito federe l'aria - pallini scuri incastrati tra le corde di un pentagramma: niente di più bello, una resa dolcissima e sporca di tutta la meraviglia di cui riuscirei ad imbrattarmi le mani.

È Beethoven che risuona nelle cuffie - stipata in una nave di seconda classe con dei perfetti sconosciuti: non ho avuto tempo di prendere il biglietto, ero troppo impegnata a schivare le mie meteoriti personali - pagare in contati ha fatto sorridere il controllore.

«What's happened, sweez?»
«Nothing. Need to get back to Horyzon.
»
«Thats the right way.
»

Lo skyplex brulica di persone, ed immagino sia il posto giusto per sentirsi soli - stringere sotto la pelle la sensazione di non valere più di nessuna delle vite che ti scorre accanto, prendere coscienza del fatto che tutti potrebbero pensarla allo stesso modo: Philip ha gli occhi azzurri come i miei, anche se ha cercato di impedirmi di guardarglieli per la maggior parte del tempo.

« You won’t hurt me, isnt it?»
« Aye, non vorrei mai farti del male.»
« Per cui me lo diresti, se fossi in pericolo?»
« A-Aye..»

« I know you would.»

Ed adesso sono io a mentire – uno specchio affogato nel buio di una fiducia regalata senza riserve: Philip mi scansa, con lo sguardo. Ha gli occhi stanchi e dimostra molto più dei suoi diciannove anni – ma non è in grado di mentire, o forse sono io che ho imparato e leggergli il viso fin troppo bene.
So che lo faresti – so che mi avvertiresti, se fossi in pericolo. Anche se non è così, e vorrei soffocare dentro quell’azzurro che ti porti dietro – farti sentire qual è il dazio da pagare per tutta questa fragilità.

Philip indietreggia ed io lo seguo, in un walzer che nessuno dei due ha voglia di ballare, chè la leggerezza sarebbe fuori posto adesso: non mi guarda, ed avrei voglia di buttargli addosso tutto quello che sento dentro – dovevo ripagare un debito che forse, però, non sono in grado di saldare.

« Phil, dimmi la verità.»
« Te l’ho detta. »
« No, you didn't. »

Ho preso la sua mano tra le mie – sentito le nocche sotto le labbra, il preludio ad un addio che riesco a sentire lacerarmi la pelle, separare muscoli ed ossa con la stessa caparbia della delusione che mi calpesta gli occhi. Lui non la stringe, è come se non fosse neanche lì , o come se non volesse esserci  - perché la verità fa male, ed io non vorrei mai farti del male.

« Non sto cercando di incastrarti, ho solo dannatamente bisogno di sapere se posso fidarmi di te, Philip.»
« Te l’ho detto, ricordi? Non ti devi fidare di nessuno.»

Il paradosso di un consiglio che avrei dovuto seguire anni ed anni fa – le Terrazze che tremano e Philip che mi porta via, ambasciatore di una salvezza ustionante, testimone di un’innocenza che deve esserci ancora, da qualche parte.  Un passo indietro – ricominciare a ballare con la paura a stridere nelle orecchie – e stavolta sono io a muovermi, che magari in questo modo riesci ad evitare le parole – una coltellata avrebbe fatto meno male.

« Who the fuck are you. »
«.. I don't know.
»

E vorrei urlargli addosso che forse è ora di pensarci, perchè tradire le persone è da vigliacchi – giocare con quello che si nasconde dietro gli occhi della gente è da codardi,  chè le anime in frantumi non sono poi così rare.
Solo che non mi ricordo come si fa, o forse è solo il fatto che non ho davvero più nulla da dirgli – dire tutto senza dire niente, sono sempre stata piuttosto brava con queste cose.

« You know what? You were right, we’re better off on our own.»
« …
»

Bruciare gli occhi con le lacrime – spargervi sopra del sale con l’intenzione di disinfettarli, pulire via tutto lo sporco che mi porto dentro:  Philip che mi guarda le spalle – non avrei mai chiesto a nessun altro, Phil, lo sai vero?  - che mi raggiunge senza uno straccio di garanzia – fare calcoli senza riuscire a tirare le somme, un’addizione in negativo che si staglia in controluce tra le possibilità di un’operazione incerta – canoni e schemi rigettati con la violenza di un conato.

« So, i think this is a goodbye.»
« Aye. E’ l’unico modo che ho per proteggerti.
»

Un passo indietro,  dita che si aggrappano al metallo – non ho bisogno di altri sostegni, adesso:  Philip smette di parlare – accettare gli addii con la consapevolezza del fatto che sono l’unico esito possibile, epilogo di un libro scritto a quattro mani – bugie ed omertà sono esattamente la stessa cosa.
Un passo indietro  e poi quattro in avanti – aggrapparsi alle spalle di Philip con tutta la forza che mi rimane: chiudere gli occhi e respirargli contro, Philip che si aggrappa a me con la stessa ostinazione – se solo non fossi così dannatamente fragile sarai rimasta, ti giuro che l’avrei fatto.


«…»

Azzurro dentro azzurro per l’ultima volta – iniziare correre a perdifiato tra la gente, nella speranza di riuscire a riempire un vuoto con altre mani – altri occhi, magari azzurri come i tuoi.

Il rumore di qualcosa che s’infrange contro la pensilina – non posso girarmi, non posso rischiare di tornare indietro, non si tratta di me, non si tratta solo di me.
E’ meglio continuare a correre – ma dove cazzo vai, vuoi stare attenta?  - sacrificarci i polmoni, ma correre – perdersi tra le navi dello skyplex e continuare a correre, per lasciarsi indietro l’amarezza di un addio che non ha mai fatto così paura.  


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