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"Welcome to my timeline, Stalker."


Niente Debussy, niente Fournier o Cjakovskij.
Niente Brahms, Chopin o Listz.
Non stanotte, scura di intermezzi striduli e pentagrammi spezzati.

Trentasette secondi.
Otto ottave.
Instrumental.

Fatelo smettere, smetti, smetti, smetti, smetti, smetti, basta.
Non ti pregherò mai, ma ti prego fallo smettere.

« 'Gene. »

Sento sui polsi e sulle caviglie il peso della mia fragilità, ossa piegate dalla forza della paura, sguardo precluso dalla coscienza di essere vulnerabile, una benda nera.
Le corde stringono, ulna e radio tornano a congiungersi in un'adunata nostalgica, tibia e fibula strette in un legamento artificiale, fibra di cotone e nylon, non sono sicura che tutto questo sia reale.
Il dolore, però, quello lo è.
Come questa maledetta musica, il desiderio che tutto venga ultimato, ho smesso di lottare quando ho capito che non sapevo più piangere.

Non quando è buio ad occhi aperti, non quando il tanfo di morte impregna talmente tanto l'aria da iniziare a pensare che ormai è parte di te, o che forse sei tu, ad emanarlo.

"Probably you're alredy dead."
"Probably you have to shut the fuck up."

Le voci sono tornate a farmi compagnia nel momento esatto in cui ho lasciato che le tenebre invadessero la mia stessa anima, frantumi di cristallo sparsi su un tappeto rosso, preludio di un caos logorante, tarli di una mente troppo debole per opporsi a sè stessa.
Urlano senza pietà, non riesco a graffiarle via, posso solo gridare: se solo ricordassi come si fa, se solo potessi farlo, se solo non avessi le dita così fragili - polsi e caviglie serrati nel morso della debolezza, questo è il dazio che bisogna pagare per tutta la delicatezza.

« Vi. »

La sua voce, atri e ventricoli smettono di collaborare, mitriale e tricuspide perdono di sincronismo: un colpo al cuore, forse ho iniziato a ricordare che sapore hanno le lacrime.
Unghie che affondano a lacerare la carne, una violenza alogica, cruenta, vorace: sangue tra le cuticole, schegge affilate che dilaniano la carne: ho una pelle troppo sottile, non ci metteranno molto a stracciarla.
Lontano, le sue mani su di me, non posso sentirlo, i suoi occhi.

« He's already dead. Now it's your turn. »

Affondano le zanne sin dentro il mio cranio, i polmoni che si concedono una tregua dolorosa, un ustione che si muove lungo lo sterno - brucia da morire, ho l'odore del sangue attaccato sulla pelle, non riuscirò mai a liberarmene. Le loro dita, mani che premono contro il costato, ho le ossa talmente leggere - vorrei essere un uccello, le ossa cave e le ali da spiegare - un uccello ferito soffre in agonia, muore in trionfo.
Una fenice rinasce dalle proprie ceneri.

« Now you're here, it's ok »

Spina dorsale curvata sotto la forza di mani invisibili, forse sono ancora lì - io non posso vederli.
Una goccia - una sola - acqua trasparente, avvelenata di tutta l'angoscia che sento formicolare sulla pelle, ancora quel tanfo, non riesco a distinguere le voci.
Una goccia, non avevo mai pensato a quanto l'acqua potesse essere crudele: la pelle inizia a deformarsi sotto una pressione scostante, leggera tanto da erodere uno spazio tra le vertebre - atlante, la più testarda, sta cercando di resistere.

Ho perso le mie note, lui ha perso le sue: Dio, Grazie.
Niente più musica, non voglio più ascoltarne, mai più, ma adesso suona per me.
Un rumore graffiante, interferenze ai miei incubi - forse è meglio così, è meglio non addormentarsi, so che potrei non risvegliarmi più.

« Well, well, well.. »

Not again.
Se avessi delle dannate ali - sarebbero di cera, ma non importerebbe - potrei sferzare l'aria con le dita, pretendere dal cielo la luce che mi merito. Fioca, spenta, filtrata senza riguardo da un vetro sporco - un lucchetto ad impedirmi di uscire, le dita chiedono pietà.
Privata dei miei legamenti artificiali, mani e piedi hanno riconquistato la propria libertà: cauti, abbandonano la terra ferma, cercano di sferzare il vuoto esattamente come gli occhi cercano la mia luce.
Vermiglia, riesce a brillare al buio.

« Told you, sweetheart. Your turn. »

Pareti impregnate dalla puzza dell'angoscia - la mia non deve essere stato il primo: casa degli orrori di un parco divertimenti abbandonato, una testa scivola ai miei piedi, avrei preferito essere cieca.
Ho gli occhi aperti, e riesco a vedere il buio: lo spazio tra i polmoni risuona di un eco tachicardico, un rimbombare aritmico scandito dal pulsare del sangue - ero sicura di averne ancora, nelle vene.

« C'è da dire che ci voglia una certa perizia per fare un lavoro di.. »
« ... »
« A real deal. ..  No Alliance, Me ... Saint. »
« 'mn it »

Argento e topazio, non avrebbe potuto cercare meglio: molto più dell'oro dei miei capelli, molto più del rubino di tutto il sangue.
Posso sentire le liane dell'angoscia stringersi attorno al petto, cercano d'impedirmi di respirare. Sarebbe tutto più semplice, nessuno oggetto con cui essere scambiati, una vita per due vite, non c'è neanche bisogno di ragionarci: solo un pensiero - il mare ed un sorriso, poi il buio.
Un corridoio lungo kilometri, devo riuscire a catturare quella luce, ad imprigionarla negli occhi, a farla mia.

« Sempre che non sia lei ad imprigionare te. »
« Shut the fuck up. »

Polpastrelli che si aggrappano alla carta da parati - viene giù come fosse polvere, dannazione.
Non sono abbastanza stabile, scalza, rumore metallici.
Non sono passi umani, questo mi basta: ancora un metro, guarda la luce è lì che devi arrivare, ancora un metro.

Trentasette secondi.
Otto ottave.
Instrumental.

« Stop, stop, stop, stop.. »

Ho cercato di proteggere timpani e coclea, i palmi sanno essere meravigliose conchiglie: solo che non riesco a sentire il mare, neanche volendo.
Tre uomini, sei braccia: ne basta uno solo a portarmi via, due a legarmi alla sedia.
Polsi e caviglie costrette in una morsa soffocante, occhi chiari che fissano i miei, hanno delle mani troppo grandi, non chiederò mai perdono in tempo.

Basta solo un braccio a portarmi via, due mani e legarmi alla sedia.
Un uomo per sollevare un secchio, un altro per impedire che disobbedisca: conato dopo conato, posso sentire il sangue scorrere lungo l'esofago, transitare per lo stomaco, procedere verso l'intestino.
Treni scardinati fuori dai binari, non si muove lungo le vene, preferisce una via più rapida: Kevin mi tiene la bocca, Cello cerca di non farmi morire soffocata.
Non subito, almeno.

« Assicurati che lo beva tutto. »

Bastano dieci dita, una carezza possessiva che si arrampica su per il collo: involucro di nervi ed arterie, sento la spina dorsale sfregare contro i suoi polpastrelli, non voglio guardare gli occhi di un uomo che uccide, non voglio che siano l'ultima cosa che vedo.

« Sorry, Saint. »

Bastano dieci dita a recidere una vita sottile, senza radici e lontana, persa fin troppi anni fa dietro a delle polverine magiche, chiavi per i tuoi paradisi artificiali.
La sensazione di apnea mi è sempre stata familiare, avrei preferito morire vestita di bianco - il rosso non mi dona, ma forse sta bene tra i capelli, sulle labbra.
Sono sicura che al buio incontrerò i miei creatori, le braccia potranno trasformarsi in alberi - mi perderò tra le foglie, ma non potranno più spezzarmi le ali.

«  'Gene. Sei a Capital Ciy, e sei viva. Sei viva. »









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