La Du Prè suonava per vivere.
Letteralmente, perchè anche se ogni singola fibra muscolare cospirava per intorpidirle le dita, lei continuava a gettare l'anima contro quelle quattro corde, ne traeva frammenti di cristallo, melodie di cui era impossibile non innamorarsi.
Mio padre mi spiegò che era malata - sclerosi multipla, mi disse.
Ma precisò che fino a quando l'ultimo muscolo non smise di lottare, lei continuò a suonare - suonava per vivere, era esattamente così.
Il concerto di Elgar rimbomba sulle pareti della casa - una performance leggendaria e definitiva, l'hanno definita così. Non che ne capisca realmente qualcosa, è solo che lo puoi sentire - il dolore, la sofferenza - li puoi sentire dentro ogni nota, fuggire l'equilibrio fragile di un'armonia vulnerabile - vulnerabile, è questa la parola che stavo cercando.
« Vì, turn off this shit.»
« .. I thought you lov--»
« .. I thought you lov--»
« Turn off this shit. »
Subito dopo, la musica ha smesso d'illuminare la stanza, un'opacità nebulosa capace di togliere il fiato - non ho bisogno di respirare, o forse é solo mancanza di voglia - un giradischi della Terra-che-fu, Davis che mi parla di come la Du Prè avesse continuato a vivere per quelle note, per dare al mondo un'alternativa - la possibilità di condividere una sofferenza troppo profonda per essere bruciata dall'egoismo delle parole.
Davis che tace, e mi guarda - una consapevolezza ustionante, la stessa nascosta nelle lacrime che solo il cuscino ha imparato a conoscere. La ricerca di qualcosa di perfetto - muscolo contro muscolo, piede contro piede, labbra contro labbra. Una lotta angosciante, la necessità di riprendersi un amore che non merita, che non merito, una polvere capace di risolvere tutti i problemi - problemi che esistono solo nella tua testa, Virginie.
Un silenzio che riesce a riempirmi i timpani con lo stesso fragore di vetri rotti, non c'è bisogno di parlare - ti prego non parlare, non saprei quale voce usare per risponderti. Il conoscere già tutte le risposte, il non volerle ascoltare, la mancanza di coraggio - gli occhi di Davis che si posano sui miei.
« So, what we're going to do. »
« About what. »
« About us. »
Davis che tace, e mi guarda - una consapevolezza ustionante, la stessa nascosta nelle lacrime che solo il cuscino ha imparato a conoscere. La ricerca di qualcosa di perfetto - muscolo contro muscolo, piede contro piede, labbra contro labbra. Una lotta angosciante, la necessità di riprendersi un amore che non merita, che non merito, una polvere capace di risolvere tutti i problemi - problemi che esistono solo nella tua testa, Virginie.
Un silenzio che riesce a riempirmi i timpani con lo stesso fragore di vetri rotti, non c'è bisogno di parlare - ti prego non parlare, non saprei quale voce usare per risponderti. Il conoscere già tutte le risposte, il non volerle ascoltare, la mancanza di coraggio - gli occhi di Davis che si posano sui miei.
« So, what we're going to do. »
« About what. »
« About us. »
Non è una domanda, sembra piu un constatazione - la presa di coscienza di qualcosa che ha iniziato a scivolare tra le dita con la puntualità di granelli di sabbia.
Davis mi guarda come se non mi avesse mai vista - o come se avesse appena imparato a conoscermi: non c'è delicatezza o attenzione nelle carezze che mi riserva dopo, solo una furia spietata - ho imparato a capire che i graffi non sono che un altro modo per lasciare una firma, dimostrare al mondo la forza di un amore sgretolato già dalle fondamenta.
Cosette, la domestica, entra in camera con la paura dipinta sugli occhi - un collare a testimoniare una fedeltà obbligata, ma mai tradita.
Adocchia la blast sul tavolino, ci guarda: credo si stia chiedendo quando arriverà il momento in cui potrà tornare libera - in cui anche io potrò farlo, fuggire i lacci di un amore soffocante, eppure talmente forte da regalarmi ancora motivi per respirare.
« Peyton in salotto, attende per il colloquio, Mr Robinson. »
David non risponde: non la guarda neanche - cerca di bruciarmi la pelle continuando a spingermi addosso quegli occhi, la ricerca di una risposta che non ho la forza di dare.
Si alza lentamente, carne chiara scolpita su un incrocio tonico di muscoli ed ossa - mani troppo grandi che scendono a raccogliere un accappatoio, un pacchetto di sigarette.
Si muove con la lentezza di un animale in procinto di azzannare la propria vittima - ma io sto già sanguinando, non servono morsi letali: è bastato un suo sguardo a traforarmi l'anima, è bastato un solo sguardo per decidere che non c'era niente da fare, bisogna solo aspettare.
« Porto via questa roba »
« No, no. Lasciala Cosette, ci penso io. »
Che è meglio farla sparire dentro le vene, questa roba.
Cosette mi guarda con la compassione a scolpire ogni ruga - una compassione cosi esplicita da farmi venire voglia di strapparle la faccia a morsi, che non ho bisogno delle tua cazzo di pietà.
Sono parole non dette, ma basta uno sguardo, perché lei mi conosce - ci conosce come la più rassegnata delle madri, che prega Dio di riprendersi i propri figli prima che questi possano prendersi lei - la poca vita che le rima da stringere in quelle dita nodose.
Si congeda con una riverenza strafottente, sparisce oltre una porta che so già essere chiusa a chiave - ancora prima che senta grattare la chiave nella toppa.
Ma non è importante - non adesso: ho tutto ciò che mi serve per sparire dietro i miei universi paralleli - paradisi artificiali dove salvare ciò che rimane dei frammenti d'anima.
Si congeda con una riverenza strafottente, sparisce oltre una porta che so già essere chiusa a chiave - ancora prima che senta grattare la chiave nella toppa.
Ma non è importante - non adesso: ho tutto ciò che mi serve per sparire dietro i miei universi paralleli - paradisi artificiali dove salvare ciò che rimane dei frammenti d'anima.
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